In Italia si stima che siano circa 2.000 i pazienti colpiti dalla cosiddetta ‘beta-talassemia non trasfusione dipendente’, caratterizzata da anemia congenita che non necessita di trasfusioni di sangue regolari e continuative. È una condizione che può però determinare gravi complicanze, come aumento delle dimensioni della milza, osteoporosi, ipertensione polmonare, ipertrofia cardiaca e, soprattutto in caso di rimozione chirurgica della milza, aumentato rischio trombotico. Fino a oggi non vi erano terapie in grado di controllare l’anemia. Per la prima volta una nuova molecola, luspatercept, ha dimostrato di essere efficace nell’aumentare in maniera sostanziale il valore dell’emoglobina nel 77% dei pazienti e, in più della metà dei casi, è stato raggiunto un incremento molto elevato. I dati emergono dallo studio internazionale di fase II ‘Beyond’, presentato al congresso dell’associazione europea di ematologia e approfondito oggi in una conferenza stampa virtuale promossa da Celgene, ora parte di Bristol Myers Squibb. Il valore scientifico dello studio è tale da essere stato incluso nel simposio presidenziale e selezionato fra i migliori sei abstract del congresso. Sono stati coinvolti 145 pazienti e l’Italia ha svolto un ruolo di primo piano nella ricerca. “La malattia colpisce circa 7.000 persone in Italia, 2.000 presentano la forma ‘non trasfusione dipendente’ – spiega Gian Luca Forni, presidente della Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie -. Quest’ultima, però, è sottostimata rispetto alla talassemia major, che è facilmente censibile perché richiede una trasfusioni da effettuarsi in ospedale. L’organismo dei pazienti con ‘betatalassemia non trasfusione dipendente’ è sottoposto a costante usura ed è paragonabile al motore di un’auto che non riesce a funzionare a pieno regime”. Una condizione che ha impatto negativo sulla qualità di vita, perché ogni azione, come camminare o salire le scale richiede uno sforzo notevole. Nello studio, luspatercept ha mostrato un aumento dei valori di emoglobina pari o superiore a 1 g/dL nel 77,7% dei pazienti. Un risultato importante, perché si traduce in un miglioramento dell’ossigenazione periferica, permettendo di migliorare lo svolgimento di attività fisiche e mentali.