ANCONA – Assolto per non aver commesso il fatto. Si è concluso così per Giuseppe Graviano il processo, davanti alla Corte d’appello di Ancona, per il coltello ritrovato nella cella del carcere di Ascoli Piceno dove era detenuto al 41bis a giugno del 2017. Decisivo il test del dna a cui il boss si è sottoposto, rinunciando alla prescrizione, come riferisce il suo legale Federico Vianelli.
Si trattava di una lama rudimentale ottenuta da una lattina e che secondo la testimonianza dell’agente che l’aveva scoperta era nascosta all’interno del tavolo. A seguito del ritrovamento il boss mafioso di Brancaccio era stato trasferito nel carcere di Terni.
Con la sentenza la Corte d’appello ha così ribaltato il giudizio di primo grado che si era concluso con la condanna di Graviano a 6 mesi di arresto e a mille euro di ammenda. Un esito a cui si è giunti con la riapertura dell’inchiesta, disposta dai giudici su istanza della difesa.
La perizia ha escluso che sull’arma vi fossero tracce genetiche riconducibili a lui. I giudici di appello hanno quindi disposto l’invio degli atti alla procura che ora dovrà accertare a chi appartenesse il coltello. La decisione arriva alla vigilia di un’altra pronuncia importante per il boss.
Domani entreranno in camera di consiglio i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria titolari del processo sulla “‘Ndrangheta stragista” e non è escluso che la sentenza arrivi in giornata. Con Graviano è imputato Rocco Santo Filippone, presunto affiliato alla cosca Piromalli di Gioia Tauro: entrambi in primo grado sono stati condannati all’ergastolo quali presunti mandanti dell’assassinio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, avvenuto il 18 gennaio del 1994 all’altezza dello svincolo di Scilla dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.