Un delitto che si è consumato nell’ambito di un rapporto “connotato da una reciproca astiosità latente tra nonna e nipote”. Un litigio scaturito da un dispetto di Enea o da un’offesa proferita dalla nonna.
Nelle 744 pagine i giudici della Corte d’Assise di Macerata spiegano le motivazioni su cui poggia la condanna (del 15 dicembre scorso) all’ergastolo del 23enne Enea Simonetti per aver ucciso la 78enne Rosina Carsetti, e l’assoluzione per l’accusa principale del marito della vittima Enrico Orazi e della figlia Arianna, condannati però a 2 anni per simulazione di reato quando inventarono la storia del ladro vestito di nero che era entrato in casa uccidento l’anziana e legando Arianna e il padre mentre Enea era al supermercato).
Su Arianna i giudici spiegano che probabilmente aveva scoperto ciò che era accaduto solo dopo che la madre era morta, così ha cercato di salvare il figlio. I giudici descrivono le dinamiche famigliari che sono riusciti a ricostruire anche grazie alla fitta attività di indagine svolta dagli inquirenti, nonché alle ulteriori prove e testimonianze acquisite. Si parla di un rapporto privo di un sincero affetto reciproco tra nonna e nipote, di una vicendevole tensione latente. I giudici escludono che vi sia stata la premeditazione, la famosa frase intercettata dagli inquirenti su Instagram in cui Arianna diceva al figlio che stava studiando il piano, è stata ritenuta troppo generica.
L’omicidio per mano di Enea potrebbe essere scaturito dall’ennesimo litigio, da un presunto dispetto da parte di Enea anche nella consapevolezza che la nonna avrebbe potuto chiamare nuovamente i carabinieri come era già accaduto in un’altra discussione. Sulla posizione degli altri imputati non emergono per i giudici elementi probatori indizi gravi precisi e concordanti per l’omicidio di Rosina. Rapporti famigliari difficili tanto che la vittima si era rivolta perfino ad un centro anti violenza. Ma per i giudici il reato dei maltrattamenti in famiglia non sussiste poiché le condotte non risultano dimostrate. Inoltre su Rosina i giudici aggiungono che da quanto emerso nel processo, la donna era stata abituata ad un alto tenore di vita, che mangiava al ristorante almeno una volta a settimana, andava spesso dall’estetista, acquistava capi costosi e all’improvviso si trovava a ricevere dal marito solo 10 euro al giorno per le spese, per via delle difficoltà economiche dell’attività di famiglia. Ciò la portava a lamentarsi anche del fatto di dover vivere con nipote e figlia in casa che aveva gestito da sola per molti anni.
Il delitto di Montecassiano ha lasciato un segno profondo nella comunità che ancora non dimentica quel Natale di tre anni fa, quando nel pomeriggio della Vigilia si consumò l’omicidio nella villetta di via Pertini 31. Una casa da sogno vista dall’esterno, ma nella quale proprio alla vigilia di Natale, fu vissuto il peggiore degli incubi.